“ L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento
delle chiavi perdute, dell’ora sprecata.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta:
luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare.
Nessuna di queste cose causerà disastri.
Ho perduto l’orologio di mia madre.
E guarda! L’ultima, o la penultima, delle mie tre amate case.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Ho perso due città, proprio graziose.
E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è stato un disastro.
Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato). Questa è la prova. È evidente,
l’arte di perdere non è difficile da imparare,
benché possa sembrare un vero (scrivilo!) disastro “.
Elizabhet Bishop
A me piace dargli questa interpretazione:
Alcune cose sono fatte per esser perse, scrive la poetessa. La loro perdita, quindi, sembra non essere un problema.
Siamo sicuri che smarrendo per primi i piccoli oggetti ci abituiamo a perdere con leggerezza ?
Perdere può diventare un’abitudine, un vizio, così che ci crediamo pronti a perdere poi, cose più importanti.
Infatti, continuando a leggere la poesia, ciò che si va perdendo, diventa sempre più significativo.
Perdiamo ciò che desideriamo poter ricordare, i nomi di persone, di luoghi e poi oggetti come un orologio/affetto appartenuto alla propria madre.
Pratica lo smarrimento sempre più, così quando perderai l’oggetto più significativo, non sarà difficile andare avanti … sembrano comunicare le parole.
Eppure, leggendo, sembra che l’arte di perdere sia davvero difficile da imparare.
La poetessa sembra scrivere di oggetti, di cose perdute che però fanno ancora così parte di sè da conoscerne perfino i confini.
Cosa accade nel finale della poesia?
La poetessa ci dice che l’arte di perdere va esercitata soprattutto per dimenticare una persona amata.
Si rivolge a questo qualcuno dicendogli: “Ho perso persino te”, avendo ri-guardo verso la sua voce, un gesto amato e unico, suo e di nessun altro.
L’imperativo “SCRIVILO!“, nel finale sembra svelare il fallimento del saper perdere o del compromesso che dovremmo fare per perdere.
E. Bishop ci rivela che la soluzione per dimenticare è un paradosso: per dimenticare è necessario ricordare.
Secondo voi, l’arte di perdere è davvero possibile impararla?
Davvero riusciamo a dimenticare?
Se ricordiamo le cose perse, forse non sono perse del tutto.
Farsi queste domande credo sia importante.
Oggi, immersi in un turbinino di eventi che ci distraggono ed anestetizzano, strattonati in continui incontri fugaci, abbiamo tempo di soffermarci
per sentire (non solo con le orecchie),
per guardare ( non solo con gli occhi),
per toccare ( non solo con le mani)
ed assaporare ( non solo con la bocca)
il valore di chi o cosa perdiamo?
Francesca :•)
P.S. ringrazio “circolodeilettori.it”
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